sabato 5 novembre 2011

Quel filo di speranza tra Genova e l'Irpinia


Questa storia l’ho trovata stamattina in rete, mentre cercavo di informarmi sulla situazione di Genova e guardavo in silenzio le ultime immagini dell’alluvione. Non la conoscevo, perché certi episodi “minimi” nessuno li racconta più, forse abbiamo perso il gusto di farlo. Ma quando pensavo di diventare giornalista, erano proprio questi i fatti di cui avrei voluto scrivere, perché aiutano a capire e a dare un senso, quando diventa difficilissimo, se non impossibile farlo. Come oggi, tra le strade di Genova, negli occhi dei suoi cittadini feriti, nel cuore di tutti quelli che amano questa città, anche se non ci sono mai stati, ma hanno imparato a conoscerla attraverso i versi di De André o le poesie di Montale. L’ha scritta il mio indimenticabile professore di lettere del liceo, Giuseppe Cilento, nel suo status su Facebook. E racconta del viaggio dei portuali di Genova verso l’Irpinia, nei giorni drammatici del terremoto del 1980. Anche allora era novembre, la terrà tremò per 90 secondi lasciando sotto le macerie più di 2000 vittime. Immediatamente, dal porto di Genova i portuali e gli operai dell’Italsider organizzarono diverse squadre di soccorso da inviare sul posto. Fu un gesto istintivo e disinteressato, uno di quelli che si dovrebbero far studiare nelle scuole, per insegnare ai bambini che gli eroi esistono anche fuori dai fumetti. In pochi giorni si programmò la partenza di due navi dirette al porto di Salerno: la prima, salpata appena arrivarono le prime drammatiche notizie sull’entità del sisma, portò container, docce, case prefabbricate, roulotte. I container divennero la casa dei portuali per i successivi quattro mesi passati tra quelle montagne. Sull’altra nave gruppi elettrogeni, cavi, pale, ruspe e semoventi. I camion si diressero verso tre piccoli paesi della provincia di Salerno completamente rasi al suolo dal sisma: Oliveto Citra, Laviano e Colliano. Prima di quel giorno era difficile perfino trovarli segnati sulle carte geografiche. Alcuni ricordano che il sindaco di Oliveto Citra paragonò l’arrivo degli operai genovesi a quello degli alleati in Normandia. Le squadre di soccorso (formate da 50 elementi l’una) si davano il cambio ogni sette giorni. Per quattro lunghissimi mesi furono gli artefici di un piccolissimo miracolo: diedero a tutti gli abitanti un posto in cui stare, nei tre campi base costruiti a valle, con luce, acqua corrente e tutti i generi di prima necessità. Chi conosce quelle montagne può immaginare quanto sia stata difficile l’opera di soccorso e quanto sia stato grande il gesto fatto dagli “uomini venuti dal mare”. Quanta generosità da parte degli “ultimi della terra”, come ama definirli Don Gallo, che da quel giorno divennero gli angeli di Laviano. Perfino il segretario del Pci Enrico Berlinguer e il parlamentare Pio La Torre andarono a stringere le mani ruvide di quegli uomini, riconoscendo il grandissimo carico di altruismo che erano stati in grado di trasmettere a tutto il paese attraverso il loro contributo. Oggi, guardo Genova e ripenso a loro. Ripenso che malgrado tutto, questo paese racchiude in se ancora tante cose bellissime, tante storie che ci possono far rialzare la testa e insegnare la speranza. Proprio quando si tocca il fondo. E oggi tocca a noi spazzare via quel fango. Lo dobbiamo al grande cuore di quei portuali che insegnarono a tutti che cos’è la dignità.

venerdì 4 novembre 2011

Santoro e i giornalisti che si "specchiano"

Ieri sera prima puntata di Servizio Pubblico. Direte: “forse è un po’ presto per parlare, era solo la prima puntata”. Vero, non si fa. Rischiamo di diventare come i signori assiepati al bar dello sport che criticano la prima giornata di Campionato. C’è tempo, la stagione è ancora lunga. Eppure qualche considerazione la si può già fare. Secca, senza giri di parole. Una volta i giornalisti erano il veicolo tra le notizie e la gente. Erano “gli operai” di un servizio importantissimo, pubblico e fondamentale per la democrazia. Se qualcuno era fortunato, nelle redazioni si trovava qualche buon maestro che glielo avrebbe ripetuto fino alla nausea. “Ragazzo devi consumare le suole, tu non sei un cazzo. Le notizie, le notizie..contano”. In alcune scuole di giornalismo lo insegnano, c’è scritto sui libri. Le cinque W, i fatti separati dalle opinioni, la verifica delle fonti. In nessun libro, mai e poi mai, ho letto che la notizia sono i giornalisti. E invece è proprio quello che è successo ieri. Santoro sul palco mattatore di se stesso: parla con i defunti (che lo guardano, anche se io preferisco pensare che ieri sera Biagi e Montanelli abbiano avuto di meglio da fare), si definisce l’alfiere della libertà d’informazione, mette su un circo autoreferenziale, gigioneggia con un personaggio come Lavitola. Poi il sermone infinito di Travaglio: una volta faceva ridere, ma qualcuno dovrebbe ricordagli che i tempi sono la cosa fondamentale per chi vuole fare avanspettacolo. Totò lo sapeva benissimo, era impeccabile in questo. E ancora qualche servizio, sparuto, incursioni nella realtà senza spiegarla, sempre al servizio del giornalista, mai del telespettatore. La dialettica prossima allo zero. Eppure non aveva cominciato così Santoro. Proprio no, lo avrà dimenticato. Ma qualcuno ancora se lo ricorda: erano i tempi di Samarcanda e de Il Rosso e il nero. E la televisione italiana non sarebbe stata più la stessa. Perché? Semplice, andava in onda la realtà. Parlavano le persone: la mafia (indimenticabile puntata di Santoro-Costanzo, sul palco non c’era Lavitola ma il giudice Falcone). I collegamenti con le fabbriche, gli operai cassintegrati che si avvicinano al microfono, ma senza urlare, gli imprenditori che spiegavano i meccanismi alla base del pizzo, Libero Grassi. E tangentopoli, e la fine del comunismo. Senza troppa retorica, senza alzare i toni. Quei microfoni per la prima volta si puntavano in faccia alle persone. Ieri no, ma non è più così da molto tempo, da quando è diventata una questione personale, da quando il berlusconismo ha cambiato irrimediabilmente la percezione della realtà. Un uomo solo al comando, tutti gli altri intorno a contendergli lo scettro. E non importa se metà della popolazione italiana (e sono ottimista) non sa che cos’è lo spread btp-bund, cosa sta succedendo all’economia mondiale, perché il 30 per cento dei giovani in questo paese è senza lavoro e senza speranza. La casta è più importante, e anche più facile da capire e da odiare. Ma anche voi siete la casta. Siete un mondo impenetrabile, che cammina parallelo alla vita reale. Perché se vi foste fermati a riflettere avreste capito che la libertà d’informazione in Italia è intollerabilmente compromessa soprattutto da altri fattori. Dagli oligopoli, dal non rispetto del lavoro dei precari (che sono gli ultimi rimasti a fare notizie), dalla politicizzazione isterica di tutto il mondo mass-mediale. E invece voi,  i Santoro, i Travaglio e compagnia bella, state asserragliati nel vostro bel fortino dorato, dove anche le gru sono un feticcio, al pari del frigorifero utilizzato da Renzi. Il mio “maestro” alla scuola di giornalismo una volta mi disse una cosa: “beh..hai fatto un bel pezzo. Però ti sei specchiata”. “E che vuol dire specchiata?” “Che hai pensato più a come scrivevi che a cosa scrivevi. Hai peccato di narcisismo”. Come ieri, si sono specchiati. Il “come” è imponente, bellissimo e accattivante. Il “cosa” irrilevante per i novelli narcisi della libertà d’informazione. Per stasera parliamo della casta, con Della Valle, Mieli e la Costamagna. Poi facciamo un bel sondaggio su facebook, così ci diamo anche un po’ di autorevolezza e facciamo vedere quanto siamo bravi a usare i social network. E le notizie? L’Italia? La crisi? Si fottano, come al solito. Oggi la notizia è il ritorno di Santoro, lui è contemporaneamente la libertà d’informazione, il giornalismo e la tv, uno e trino. Per le notizie c’è tutto il resto della settimana. Sia chiaro, solo fino alla prossima puntata.