martedì 11 ottobre 2011

Una sera di agosto dell'89: alla festa dell'Unità l'amara scoperta della collettività in bianco e nero

Agosto 1989, c’erano ancora il Pci, i paninari e i Duran Duran, il muro di Berlino era ancora in piedi, tangentopoli  non era esplosa e l’Inter  aveva vinto lo scudetto col Trap dopo 9 anni. Un altro tempo, la stessa Italia. Io avevo 8 anni, ma fin da piccola aspettavo quelle sere di agosto perché c’era la Festa dell’Unità. Mio padre era il segretario della piccolissima sezione “Enrico Berlinguer” del paese. Per noi era più importante della festa del Santo Patrono, più di Pasquetta o di Capodanno. Era una settimana speciale: io ero “costretta” a cantare sul palco con gli altri bimbi per una specie di Zecchino d’Oro del popolo. Mi vergognavo come una ladra: ero stonata senza rimedio e mi venivano assegnate sempre le canzoni più improbabili. Quell’anno, per esempio, mi fecero cantare “Cara terra mia” di Albano e Romina insieme a mio cugino di 7 anni. Una tortura terrificante, paragonabile solo alle iniezioni per la bronchite o al brodo di verdure. Cercavo di ribellarmi, ma alla fine i miei genitori vincevano sempre. Non con la forza, sia ben chiaro. Ma con la storia della collettività. Mio padre usava quella parola con una frequenza e una musicalità che non ho più ascoltato da nessuno. “Il bene della collettività”- mi spiegava, era la cosa “più importante per tutti. Perché l’essere umano deve perseguire sempre il bene della collettività, non deve essere egoista e per questo deve fare in modo che le persone più sfortunate migliorino la loro condizione” . “Caspita” – pensavo – “ Se stasera non canto chissà cosa succede alla collettività, e alle persone più sfortunate?” Onestamente pensavo che sarebbe stato meglio per tutti, sia per la collettività che per me, non cantare. Lei avrebbe evitato di soffrire i miei acuti e a me non sarebbero venute le farfalle nello stomaco per tutti i 20 giorni precedenti la mia pietosa performance.  Ma la verità, alla fine, è che io questa collettività ancora non l’avevo mica ben capita, sapevo pochissimo di lei, anche se in fondo in fondo cominciava a piacermi. Solo per questo alla fine salivo sul palco: perché mi faceva simpatia. Era una cosa sicuramente grandissima e sacra, ma non capivo bene a cosa farla somigliare. Una sera di quell’indimenticabile agosto 1989 tutto però mi divenne finalmente chiaro. Sul palco a chiusura della “Festa dell’Unità 1989” c’era la classica “riffa” : un quadro di un artista locale, una cesta di salumi e l’ultimo modello di  tv color della Philips. Non ero tanto appassionata di arte e anche se la cesta di prosciutti, devo ammetterlo, aveva attirato la mia attenzione, alla fine i miei occhi si puntarono su quella grigia e bellissima televisione. Il colore era arrivato in tutte le case da diversi anni, ma io ancora guardavo Lady Oscar e i Puffi in bianco e nero. Sapevo che erano blu solo perché me l’avevano detto a scuola. Mio padre da insegnante non prendeva un gran stipendio e poi aveva detto che una parte doveva sempre darla per il Partito che poi la dava alla collettività. Così mi aveva detto. Per questo in casa non c’erano soldi per poter comprare la tv a colori. Ma quella sera tutto si sarebbe ribaltato. Ne ero certa: nelle mani stringevo uno dei tanti biglietti che mio padre aveva comprato. Il numero, ancora lo ricordo, 139. Lo stringevo e insieme a lui stringevo gli occhi. Desideravo, con tutte le mie forze, vedere il vicesegretario estrarre proprio quel numero. “Ti prego collettività, per stasera, solo per stasera, fatti da parte. Falla vincere a me, ti prego collettività..”. Ripetevo queste parole nella mia testa come una litania. Nel frattempo mia sorella piccola mi aveva preso per mano, e anche se non parlava, ero certa stesse pensando esattamente le cose che avevo in mente io. E anche mia madre, a lavoro dietro il bancone dei panini con la salamella, si fermò e cominciò a fissare quella tv e noi che ci tenevamo per mano. “Allora signori..il numero che si aggiudica la tv è…il 139”: non ci potevo credere! Le mie preghiere erano state esaudite!! Cominciai a saltare e ad abbracciare tutti, da mia sorella al vecchio Pantaleo, che mi avevano detto avesse combattuto contro i tedeschi durante una guerra molto brutta. Lui mi carezzò la testa :”Hai vinto!!” disse mentre io cercavo di incrociare lo sguardo di mio padre. Volevo che la prendesse e la caricasse in macchina immediatamente. Era mia e finalmente avrei visto i puffi a colori ogni volta che volevo! Finalmente individuai mio padre sotto il palco con gli altri compagni intento a parlare fitto fitto. Corsi e gli abbracciai fortissimo la gamba: “Papà ho vinto io! Ecco prendi il biglietto! La tv è mia prendila che dico a mamma di spostare la macchina così la carichiamo”. Lui mi guardò fisso con gli occhi dolci, ma immobili. Mi prese la faccia tra le mani e mi disse piano: “ Mi spiace piccola. Ma la tv non possiamo prenderla” . “Perché ?– protestai immediatamente battendo i piedi a terra e tirandolo per la camicia – E’ mia. L’ho vinta io, me la devono dare. Che vuol dire che non possiamo?”
“Non possiamo. Cosa direbbero tutti? Io sono il segretario della sezione. Non è bene che la prenda io..capisci..potrebbero pensare che l’abbiamo fatto a posta. E poi c’è sicuramente qualcuno che ne ha più bisogno di noi. E’ importante per tutta la collettività che la tv venga rimessa in palio. Poi a Natale la compriamo, promesso!”. In quel momento la gola mi si chiuse e gli occhi cominciarono a bruciarmi di lacrime amarissime. Ma perché?  Cosa importava alla gente? La rabbia che avevo contenuto fino a quel momento esplose in grida e pianti “Ma perché non la posso prendere? Ma chi c’è che ne ha più bisogno di noi? Voglio la tv a colori! Ma poi che c’entra la collettività? Già ho cantato per la collettività, e mamma ha arrostito salamelle per sei giorni e tu gli hai dato pure lo stipendio! Dammi almeno la tv a colori! Non se ne accorgerà!”. Mio padre mi prese in braccio, ma io scalpitavo e urlavo come una disperata. Intervenne mia madre, mia nonna e gli zii. Mi comprarono un gelato che io buttai a terra, mentre mio padre dal palco spiegava che il premio sarebbe stato rimesso in palio. “Bravo compagno!”: applausi e fischi di incitamento a mio padre che aveva fatto il gran gesto di rifiutare la MIA televisione per il partito, mentre a pochi metri si consumava il mio personalissimo dramma. Ripresero il cesto con in numeri, diedero una rimestata con le mani e il segretario estrasse un nuovo bigliettino. “Compagni..il vincitore è il numero…” : a questo punto della serata i miei ricordi si fanno troppo sfocati, ricordo il mio 139..non quello che fu estratto pochi istanti dopo. Però ho impressa nella mente la faccia sorridente del vicesegretario che guarda la moglie e comincia a chiamarla. Già, che strano il caso. Tra tutte le persone presenti la nuova estrazione aveva premiato l’odiosissima moglie del braccio destro di mio padre. Non si scompose, salì sul palco, abbracciò il marito e cominciarono a festeggiare per la tv che avevano appena vinto. Con gli occhi di fuoco fulminai mio padre che intanto era sceso dal palco e guardava a sua volta me e poi il vicesegretario. Era amareggiato, lo capii subito. Magari pensava che anche loro avrebbero fatto il gran gesto di rifiutare. Ma non fu così, presero la tv e la portarono direttamente a casa, in fondo alla piazza. Mia madre era furente: “Hai visto?? Bravo..siamo sempre i soliti fessi. Ma non ho capito, tua figlia no e loro si?”. E io, per mano a mia madre, annuivo con disprezzo. “Brava mamma”- pensavo- “Fallo nero. Così impara con sta storia della collettività”. Mio padre era seriamente mortificato, balbettava cose del tipo “Vabbé, non potevo mica impedirlo. Sono scelte personali. Noi però abbiamo la coscienza a posto! Vero “appapà”?”. Io non lo guardavo nemmeno in faccia. Mi aveva proprio seccato con la storia del partito e della coscienza, avevo ancora il moccolo che mi bruciava le narici del naso, sai cosa m’importava della collettività. Non avrei visto i puffi a colori. Questo era il succo della serata per me.
“Andiamo a casa va che è meglio”- continuò mia madre ancora rossa in volto- “ Io davvero non ti capisco. Ma sempre noi dobbiamo fare i retti e corretti fino allo schifo? Ma che c’era di male a prenderci la tv? L’aveva vinta tua figlia, mica avevamo barato. Sei contento? Ora l’ha presa il tuo caro vice, e senza nemmeno farsi troppi problemi” . “Ma io non potevo..il partito..la mia coscienza”. “ Si, si..la coscienza..la morale sai qual’é? Che sono tutti buoni a fare i comunisti e a riempirsi la bocca di collettività, giustizia sociale e impegno per il partito. Ma alla fine il culo è sempre il nostro”.  Le parole di mia madre risuonarono terribili tra la folla di persone che stava assiepata intorno a noi. Prese per mano me e mia sorella e cominciò a trascinarci verso la macchina, mentre si toglieva di forza il grembiule sporco di grasso. Io ebbi giusto il tempo di girarmi e di fare la linguaccia a mio padre. Lui aveva la testa bassa e stava per accendersi la sua ennesima Ms morbida. Sembrava un pugile suonato e immediatamente mi pentii di avergli fatto quel gestaccio. Quella sera, al di la dei pianti e dei puffi grigi col cappello bianco, avevo finalmente capito cos’era la collettività, e il partito e l’impegno. E avevo capito che era una cosa che alla fine esisteva solo nella testa di mio padre e forse di pochi altri. E che non era uguale per tutti: per alcuni era a colori, per altri in bianco e nero.