sabato 5 novembre 2011

Quel filo di speranza tra Genova e l'Irpinia


Questa storia l’ho trovata stamattina in rete, mentre cercavo di informarmi sulla situazione di Genova e guardavo in silenzio le ultime immagini dell’alluvione. Non la conoscevo, perché certi episodi “minimi” nessuno li racconta più, forse abbiamo perso il gusto di farlo. Ma quando pensavo di diventare giornalista, erano proprio questi i fatti di cui avrei voluto scrivere, perché aiutano a capire e a dare un senso, quando diventa difficilissimo, se non impossibile farlo. Come oggi, tra le strade di Genova, negli occhi dei suoi cittadini feriti, nel cuore di tutti quelli che amano questa città, anche se non ci sono mai stati, ma hanno imparato a conoscerla attraverso i versi di De André o le poesie di Montale. L’ha scritta il mio indimenticabile professore di lettere del liceo, Giuseppe Cilento, nel suo status su Facebook. E racconta del viaggio dei portuali di Genova verso l’Irpinia, nei giorni drammatici del terremoto del 1980. Anche allora era novembre, la terrà tremò per 90 secondi lasciando sotto le macerie più di 2000 vittime. Immediatamente, dal porto di Genova i portuali e gli operai dell’Italsider organizzarono diverse squadre di soccorso da inviare sul posto. Fu un gesto istintivo e disinteressato, uno di quelli che si dovrebbero far studiare nelle scuole, per insegnare ai bambini che gli eroi esistono anche fuori dai fumetti. In pochi giorni si programmò la partenza di due navi dirette al porto di Salerno: la prima, salpata appena arrivarono le prime drammatiche notizie sull’entità del sisma, portò container, docce, case prefabbricate, roulotte. I container divennero la casa dei portuali per i successivi quattro mesi passati tra quelle montagne. Sull’altra nave gruppi elettrogeni, cavi, pale, ruspe e semoventi. I camion si diressero verso tre piccoli paesi della provincia di Salerno completamente rasi al suolo dal sisma: Oliveto Citra, Laviano e Colliano. Prima di quel giorno era difficile perfino trovarli segnati sulle carte geografiche. Alcuni ricordano che il sindaco di Oliveto Citra paragonò l’arrivo degli operai genovesi a quello degli alleati in Normandia. Le squadre di soccorso (formate da 50 elementi l’una) si davano il cambio ogni sette giorni. Per quattro lunghissimi mesi furono gli artefici di un piccolissimo miracolo: diedero a tutti gli abitanti un posto in cui stare, nei tre campi base costruiti a valle, con luce, acqua corrente e tutti i generi di prima necessità. Chi conosce quelle montagne può immaginare quanto sia stata difficile l’opera di soccorso e quanto sia stato grande il gesto fatto dagli “uomini venuti dal mare”. Quanta generosità da parte degli “ultimi della terra”, come ama definirli Don Gallo, che da quel giorno divennero gli angeli di Laviano. Perfino il segretario del Pci Enrico Berlinguer e il parlamentare Pio La Torre andarono a stringere le mani ruvide di quegli uomini, riconoscendo il grandissimo carico di altruismo che erano stati in grado di trasmettere a tutto il paese attraverso il loro contributo. Oggi, guardo Genova e ripenso a loro. Ripenso che malgrado tutto, questo paese racchiude in se ancora tante cose bellissime, tante storie che ci possono far rialzare la testa e insegnare la speranza. Proprio quando si tocca il fondo. E oggi tocca a noi spazzare via quel fango. Lo dobbiamo al grande cuore di quei portuali che insegnarono a tutti che cos’è la dignità.

venerdì 4 novembre 2011

Santoro e i giornalisti che si "specchiano"

Ieri sera prima puntata di Servizio Pubblico. Direte: “forse è un po’ presto per parlare, era solo la prima puntata”. Vero, non si fa. Rischiamo di diventare come i signori assiepati al bar dello sport che criticano la prima giornata di Campionato. C’è tempo, la stagione è ancora lunga. Eppure qualche considerazione la si può già fare. Secca, senza giri di parole. Una volta i giornalisti erano il veicolo tra le notizie e la gente. Erano “gli operai” di un servizio importantissimo, pubblico e fondamentale per la democrazia. Se qualcuno era fortunato, nelle redazioni si trovava qualche buon maestro che glielo avrebbe ripetuto fino alla nausea. “Ragazzo devi consumare le suole, tu non sei un cazzo. Le notizie, le notizie..contano”. In alcune scuole di giornalismo lo insegnano, c’è scritto sui libri. Le cinque W, i fatti separati dalle opinioni, la verifica delle fonti. In nessun libro, mai e poi mai, ho letto che la notizia sono i giornalisti. E invece è proprio quello che è successo ieri. Santoro sul palco mattatore di se stesso: parla con i defunti (che lo guardano, anche se io preferisco pensare che ieri sera Biagi e Montanelli abbiano avuto di meglio da fare), si definisce l’alfiere della libertà d’informazione, mette su un circo autoreferenziale, gigioneggia con un personaggio come Lavitola. Poi il sermone infinito di Travaglio: una volta faceva ridere, ma qualcuno dovrebbe ricordagli che i tempi sono la cosa fondamentale per chi vuole fare avanspettacolo. Totò lo sapeva benissimo, era impeccabile in questo. E ancora qualche servizio, sparuto, incursioni nella realtà senza spiegarla, sempre al servizio del giornalista, mai del telespettatore. La dialettica prossima allo zero. Eppure non aveva cominciato così Santoro. Proprio no, lo avrà dimenticato. Ma qualcuno ancora se lo ricorda: erano i tempi di Samarcanda e de Il Rosso e il nero. E la televisione italiana non sarebbe stata più la stessa. Perché? Semplice, andava in onda la realtà. Parlavano le persone: la mafia (indimenticabile puntata di Santoro-Costanzo, sul palco non c’era Lavitola ma il giudice Falcone). I collegamenti con le fabbriche, gli operai cassintegrati che si avvicinano al microfono, ma senza urlare, gli imprenditori che spiegavano i meccanismi alla base del pizzo, Libero Grassi. E tangentopoli, e la fine del comunismo. Senza troppa retorica, senza alzare i toni. Quei microfoni per la prima volta si puntavano in faccia alle persone. Ieri no, ma non è più così da molto tempo, da quando è diventata una questione personale, da quando il berlusconismo ha cambiato irrimediabilmente la percezione della realtà. Un uomo solo al comando, tutti gli altri intorno a contendergli lo scettro. E non importa se metà della popolazione italiana (e sono ottimista) non sa che cos’è lo spread btp-bund, cosa sta succedendo all’economia mondiale, perché il 30 per cento dei giovani in questo paese è senza lavoro e senza speranza. La casta è più importante, e anche più facile da capire e da odiare. Ma anche voi siete la casta. Siete un mondo impenetrabile, che cammina parallelo alla vita reale. Perché se vi foste fermati a riflettere avreste capito che la libertà d’informazione in Italia è intollerabilmente compromessa soprattutto da altri fattori. Dagli oligopoli, dal non rispetto del lavoro dei precari (che sono gli ultimi rimasti a fare notizie), dalla politicizzazione isterica di tutto il mondo mass-mediale. E invece voi,  i Santoro, i Travaglio e compagnia bella, state asserragliati nel vostro bel fortino dorato, dove anche le gru sono un feticcio, al pari del frigorifero utilizzato da Renzi. Il mio “maestro” alla scuola di giornalismo una volta mi disse una cosa: “beh..hai fatto un bel pezzo. Però ti sei specchiata”. “E che vuol dire specchiata?” “Che hai pensato più a come scrivevi che a cosa scrivevi. Hai peccato di narcisismo”. Come ieri, si sono specchiati. Il “come” è imponente, bellissimo e accattivante. Il “cosa” irrilevante per i novelli narcisi della libertà d’informazione. Per stasera parliamo della casta, con Della Valle, Mieli e la Costamagna. Poi facciamo un bel sondaggio su facebook, così ci diamo anche un po’ di autorevolezza e facciamo vedere quanto siamo bravi a usare i social network. E le notizie? L’Italia? La crisi? Si fottano, come al solito. Oggi la notizia è il ritorno di Santoro, lui è contemporaneamente la libertà d’informazione, il giornalismo e la tv, uno e trino. Per le notizie c’è tutto il resto della settimana. Sia chiaro, solo fino alla prossima puntata.

martedì 11 ottobre 2011

Una sera di agosto dell'89: alla festa dell'Unità l'amara scoperta della collettività in bianco e nero

Agosto 1989, c’erano ancora il Pci, i paninari e i Duran Duran, il muro di Berlino era ancora in piedi, tangentopoli  non era esplosa e l’Inter  aveva vinto lo scudetto col Trap dopo 9 anni. Un altro tempo, la stessa Italia. Io avevo 8 anni, ma fin da piccola aspettavo quelle sere di agosto perché c’era la Festa dell’Unità. Mio padre era il segretario della piccolissima sezione “Enrico Berlinguer” del paese. Per noi era più importante della festa del Santo Patrono, più di Pasquetta o di Capodanno. Era una settimana speciale: io ero “costretta” a cantare sul palco con gli altri bimbi per una specie di Zecchino d’Oro del popolo. Mi vergognavo come una ladra: ero stonata senza rimedio e mi venivano assegnate sempre le canzoni più improbabili. Quell’anno, per esempio, mi fecero cantare “Cara terra mia” di Albano e Romina insieme a mio cugino di 7 anni. Una tortura terrificante, paragonabile solo alle iniezioni per la bronchite o al brodo di verdure. Cercavo di ribellarmi, ma alla fine i miei genitori vincevano sempre. Non con la forza, sia ben chiaro. Ma con la storia della collettività. Mio padre usava quella parola con una frequenza e una musicalità che non ho più ascoltato da nessuno. “Il bene della collettività”- mi spiegava, era la cosa “più importante per tutti. Perché l’essere umano deve perseguire sempre il bene della collettività, non deve essere egoista e per questo deve fare in modo che le persone più sfortunate migliorino la loro condizione” . “Caspita” – pensavo – “ Se stasera non canto chissà cosa succede alla collettività, e alle persone più sfortunate?” Onestamente pensavo che sarebbe stato meglio per tutti, sia per la collettività che per me, non cantare. Lei avrebbe evitato di soffrire i miei acuti e a me non sarebbero venute le farfalle nello stomaco per tutti i 20 giorni precedenti la mia pietosa performance.  Ma la verità, alla fine, è che io questa collettività ancora non l’avevo mica ben capita, sapevo pochissimo di lei, anche se in fondo in fondo cominciava a piacermi. Solo per questo alla fine salivo sul palco: perché mi faceva simpatia. Era una cosa sicuramente grandissima e sacra, ma non capivo bene a cosa farla somigliare. Una sera di quell’indimenticabile agosto 1989 tutto però mi divenne finalmente chiaro. Sul palco a chiusura della “Festa dell’Unità 1989” c’era la classica “riffa” : un quadro di un artista locale, una cesta di salumi e l’ultimo modello di  tv color della Philips. Non ero tanto appassionata di arte e anche se la cesta di prosciutti, devo ammetterlo, aveva attirato la mia attenzione, alla fine i miei occhi si puntarono su quella grigia e bellissima televisione. Il colore era arrivato in tutte le case da diversi anni, ma io ancora guardavo Lady Oscar e i Puffi in bianco e nero. Sapevo che erano blu solo perché me l’avevano detto a scuola. Mio padre da insegnante non prendeva un gran stipendio e poi aveva detto che una parte doveva sempre darla per il Partito che poi la dava alla collettività. Così mi aveva detto. Per questo in casa non c’erano soldi per poter comprare la tv a colori. Ma quella sera tutto si sarebbe ribaltato. Ne ero certa: nelle mani stringevo uno dei tanti biglietti che mio padre aveva comprato. Il numero, ancora lo ricordo, 139. Lo stringevo e insieme a lui stringevo gli occhi. Desideravo, con tutte le mie forze, vedere il vicesegretario estrarre proprio quel numero. “Ti prego collettività, per stasera, solo per stasera, fatti da parte. Falla vincere a me, ti prego collettività..”. Ripetevo queste parole nella mia testa come una litania. Nel frattempo mia sorella piccola mi aveva preso per mano, e anche se non parlava, ero certa stesse pensando esattamente le cose che avevo in mente io. E anche mia madre, a lavoro dietro il bancone dei panini con la salamella, si fermò e cominciò a fissare quella tv e noi che ci tenevamo per mano. “Allora signori..il numero che si aggiudica la tv è…il 139”: non ci potevo credere! Le mie preghiere erano state esaudite!! Cominciai a saltare e ad abbracciare tutti, da mia sorella al vecchio Pantaleo, che mi avevano detto avesse combattuto contro i tedeschi durante una guerra molto brutta. Lui mi carezzò la testa :”Hai vinto!!” disse mentre io cercavo di incrociare lo sguardo di mio padre. Volevo che la prendesse e la caricasse in macchina immediatamente. Era mia e finalmente avrei visto i puffi a colori ogni volta che volevo! Finalmente individuai mio padre sotto il palco con gli altri compagni intento a parlare fitto fitto. Corsi e gli abbracciai fortissimo la gamba: “Papà ho vinto io! Ecco prendi il biglietto! La tv è mia prendila che dico a mamma di spostare la macchina così la carichiamo”. Lui mi guardò fisso con gli occhi dolci, ma immobili. Mi prese la faccia tra le mani e mi disse piano: “ Mi spiace piccola. Ma la tv non possiamo prenderla” . “Perché ?– protestai immediatamente battendo i piedi a terra e tirandolo per la camicia – E’ mia. L’ho vinta io, me la devono dare. Che vuol dire che non possiamo?”
“Non possiamo. Cosa direbbero tutti? Io sono il segretario della sezione. Non è bene che la prenda io..capisci..potrebbero pensare che l’abbiamo fatto a posta. E poi c’è sicuramente qualcuno che ne ha più bisogno di noi. E’ importante per tutta la collettività che la tv venga rimessa in palio. Poi a Natale la compriamo, promesso!”. In quel momento la gola mi si chiuse e gli occhi cominciarono a bruciarmi di lacrime amarissime. Ma perché?  Cosa importava alla gente? La rabbia che avevo contenuto fino a quel momento esplose in grida e pianti “Ma perché non la posso prendere? Ma chi c’è che ne ha più bisogno di noi? Voglio la tv a colori! Ma poi che c’entra la collettività? Già ho cantato per la collettività, e mamma ha arrostito salamelle per sei giorni e tu gli hai dato pure lo stipendio! Dammi almeno la tv a colori! Non se ne accorgerà!”. Mio padre mi prese in braccio, ma io scalpitavo e urlavo come una disperata. Intervenne mia madre, mia nonna e gli zii. Mi comprarono un gelato che io buttai a terra, mentre mio padre dal palco spiegava che il premio sarebbe stato rimesso in palio. “Bravo compagno!”: applausi e fischi di incitamento a mio padre che aveva fatto il gran gesto di rifiutare la MIA televisione per il partito, mentre a pochi metri si consumava il mio personalissimo dramma. Ripresero il cesto con in numeri, diedero una rimestata con le mani e il segretario estrasse un nuovo bigliettino. “Compagni..il vincitore è il numero…” : a questo punto della serata i miei ricordi si fanno troppo sfocati, ricordo il mio 139..non quello che fu estratto pochi istanti dopo. Però ho impressa nella mente la faccia sorridente del vicesegretario che guarda la moglie e comincia a chiamarla. Già, che strano il caso. Tra tutte le persone presenti la nuova estrazione aveva premiato l’odiosissima moglie del braccio destro di mio padre. Non si scompose, salì sul palco, abbracciò il marito e cominciarono a festeggiare per la tv che avevano appena vinto. Con gli occhi di fuoco fulminai mio padre che intanto era sceso dal palco e guardava a sua volta me e poi il vicesegretario. Era amareggiato, lo capii subito. Magari pensava che anche loro avrebbero fatto il gran gesto di rifiutare. Ma non fu così, presero la tv e la portarono direttamente a casa, in fondo alla piazza. Mia madre era furente: “Hai visto?? Bravo..siamo sempre i soliti fessi. Ma non ho capito, tua figlia no e loro si?”. E io, per mano a mia madre, annuivo con disprezzo. “Brava mamma”- pensavo- “Fallo nero. Così impara con sta storia della collettività”. Mio padre era seriamente mortificato, balbettava cose del tipo “Vabbé, non potevo mica impedirlo. Sono scelte personali. Noi però abbiamo la coscienza a posto! Vero “appapà”?”. Io non lo guardavo nemmeno in faccia. Mi aveva proprio seccato con la storia del partito e della coscienza, avevo ancora il moccolo che mi bruciava le narici del naso, sai cosa m’importava della collettività. Non avrei visto i puffi a colori. Questo era il succo della serata per me.
“Andiamo a casa va che è meglio”- continuò mia madre ancora rossa in volto- “ Io davvero non ti capisco. Ma sempre noi dobbiamo fare i retti e corretti fino allo schifo? Ma che c’era di male a prenderci la tv? L’aveva vinta tua figlia, mica avevamo barato. Sei contento? Ora l’ha presa il tuo caro vice, e senza nemmeno farsi troppi problemi” . “Ma io non potevo..il partito..la mia coscienza”. “ Si, si..la coscienza..la morale sai qual’é? Che sono tutti buoni a fare i comunisti e a riempirsi la bocca di collettività, giustizia sociale e impegno per il partito. Ma alla fine il culo è sempre il nostro”.  Le parole di mia madre risuonarono terribili tra la folla di persone che stava assiepata intorno a noi. Prese per mano me e mia sorella e cominciò a trascinarci verso la macchina, mentre si toglieva di forza il grembiule sporco di grasso. Io ebbi giusto il tempo di girarmi e di fare la linguaccia a mio padre. Lui aveva la testa bassa e stava per accendersi la sua ennesima Ms morbida. Sembrava un pugile suonato e immediatamente mi pentii di avergli fatto quel gestaccio. Quella sera, al di la dei pianti e dei puffi grigi col cappello bianco, avevo finalmente capito cos’era la collettività, e il partito e l’impegno. E avevo capito che era una cosa che alla fine esisteva solo nella testa di mio padre e forse di pochi altri. E che non era uguale per tutti: per alcuni era a colori, per altri in bianco e nero.

mercoledì 22 giugno 2011

Unità di Crisi

Questo mio articolo è stato pubblicato dal sito "Offline-le notizie in altre parole" il 29 aprile 2009. Lo ripropongo perché penso possa completare il quadro.
 
C’era una volta un imprenditore illuminato e generoso che decise di lasciare tutte le attività per le quali tanto si era speso per prendersi cura della sua terra e della sua gente. Una storia d’altri tempi come se ne sentono tante, soprattutto in Italia e in Thailandia. Ma questa volta non stiamo parlando dell’Unto dal Signore Silvio Berlusconi, ma del suo epigono sardo: il moralizzatore di Sanluri Renato Soru. L’uomo “testardo e retto” che parla a braccio ai minatori del Sulcis, il padre in “giacca di velluto a coste” che in nome della coerenza manda a gambe per aria il consiglio Regionale che presiede senza troppi “ma anche”. 
L’uomo nuovo del Pd che come molti altri esponenti democratici si è iscritto di diritto nel libro nero degli “Icaro socialdemocratici e riformisti”. Come si diceva all’inizio una storia come tante in questa Italia post-meta-psyco Prima Repubblica. Ebbene il self made man, nemmeno un anno fa, decise di incrementare le sue tante attività filantropiche acquistando il malridotto quotidiano fondato dall’illustre conterraneo Antonio Gramsci, l’Unità, salvandola dai tanti debiti e avviando un’energica azione di rilancio. Inni di giubilo da tutta la sinistra italiana, con in prima fila Walter Kennedy Veltroni a spellarsi le mani e a benedire il connubio Tiscali- via Benaglia. Tutti felici per lo scampato pericolo corso con la possibilità che ad acquistare l’ex organo del PCI fossero gli Angelucci, signori incontrastati della sanità laziale, ora alle prese con le celle di Regina Coeli.
«Non era giusto che il giornale di Gramsci e di Enrico Berlinguer, che ha rappresentato tanto nella storia del nostro Paese, fosse trattato – affermava l’ex Governatore nel maggio 2008 - come una merce qualsiasi». Infatti, meglio trattarlo come un balocco con il quale si gioca per un po’, fino a quando non serve più, e allora lo si ripone nel cestino delle cose vecchie. Milioni di euro per il rilancio, una nuova direttrice, una veste grafica rivoluzionata, il rifacimento del sito internet, l’innesto di tanti giovani e validi giornalisti, l’idea di aprire 4 nuove sedi locali a Cagliari, Palermo, Milano e Napoli. Ma la luna di miele è durata poco più di 9 mesi. Il tempo di dimettersi dalla Carica di Governatore, affrontare il gigante Cappellacci del Pdl alle elezioni di febbraio, perdere le consultazioni e tornare a casa-Tiscali. Fine dei giochi. A questo punto a cosa serve l’Unità? Il giornale cresce nelle vendite, va bene e piace, come non succedeva da tempo (nei primi mesi della nuova gestione sembrava che le vendite fossero aumentate e che la nuova veste grafica incontrasse i gusti del pubblico Ndr). Ma non è più utile. Il suo destino era tragicamente legato a quello del benefattore Soru: l’avventura politica del moralizzatore di Sanluri è naufragata, quindi a chi importa dell’Unità? Del glorioso giornale di Gramsci e Berlinguer? Si, erano sardi anche loro, ma non erano mica imprenditori. Cosa ne sapevano della crisi economica, di quella dell’editoria e del gigante Cappellacci?
A febbraio l’Unità ripiomba nel baratro e Soru non è più disposto a sborsare un euro. Serve un piano di ristrutturazione selvaggio, tagli ai costi e di conseguenza al personale. La redazione non ci sta, indice 5 giorni di sciopero nel mese di marzo. Ma dietro la minaccia di vedersi recapitare i libri in tribunale il Cdr fa marcia indietro ed è costretto ad accettare i tagli. Venti giornalisti fuori più la fine del contratto per altri dieci con un rapporto di collaborazione. E nei prossimi due anni altri 17 redattori a casa e la cassa integrazione a turno per chi resta. Effetto immediato della ristrutturazione la scomparsa, a partire da maggio, della cronaca di Roma. In fondo, la Capitale, nel primo anno dalla fondazione dell’Impero di Alemanno non ha bisogno di una voce diversa, di sinistra. E nemmeno i precari hanno bisogno di essere rappresentati: oltretutto sarebbe abbastanza bizzarro essere rappresentati da altri precari. E nemmeno le famiglie dei morti sul lavoro avranno bisogno di leggere le cronache dei processi che le riguardano. Dopo la legge Sacconi non serviranno più. E nemmeno chi lotta contro le mafie avrà più bisogno dell’Unità, perché le mafie non esistono ne in Sardegna ne nel resto del mondo. E nemmeno il Pd ne avrà bisogno: è troppo concentrato sulle prossime elezioni Europee. O meglio, troppo concentrato ad agevolare una nuova storica vittoria del Cavaliere. Lui si che ci sa fare con l’informazione e con i giornali. Sarà per questo che non ne manda i libri in tribunale dal 1994. Sarà anche perché a lui i tribunali non piacciono molto. Sarà..Ma anche questo non è importante.

sabato 18 giugno 2011

Se la direttora va via..

Ho aperto il blog da un po' di mesi, ma questo è il mio primo post. Ci pensavo da questo pomeriggio, in fondo sono una giornalista e se anche non lavoro per nessuno, mi piace scrivere, discutere, analizzare le cose, spaccare il capello, raccontare storie. E così stasera, dopo mesi e mesi di inattività, devo scrivere. Lo devo fare perché mi prudono le mani, un riflesso del mio cervello che non sta quieto. Proverò a farlo fuor di retorica, su una cosa che oggi mi ha lasciato davvero perplessa. E' ormai notizia certa che la direttrice dell'Unità, diva e donna, Concita De Gregorio, lascerà entro un mese la direzione del quotidiano fondato da Gramsci. E fin qui, tutto regolare. Capita che i direttori lascino o siano licenziati. Capita in tutti gli ambiti. Capita anche nelle migliori famiglie. Quello che proprio non capisco è la reazione di gran parte del popolo della sinistra. Non capisco i messaggi di solidarietà strappalacrime, non capisco chi grida al complotto ordito dai perfidi dirigenti del Pd, in primis D'Alema, che anche se non gode della mia massima stima, questa volta davvero mi sembra estraneo al fatto. Non capisco perchè dobbiamo sempre ornarci di finti profeti e di santini da incensare. Non capisco perchè ci facciamo influenzare tanto e imbambolare da persone e storie che in condizioni normali, in un paese normale, in un tempo giusto, sarebbero al loro posto senza tanti clamori. Poi ho capito perchè succede questo. Perché tanti non sanno come funziona, come vanno le cose realmente anche a sinistra, in quella dei salotti soprattutto. Io lo so, adesso lo so. Ma prima ero come loro. Prima di voler diventare giornalista, prima di aver fatto stage in redazioni di mezza Italia, prima di aver visto fabbricare i santini, prima di aver camminato per i corridoi dell'Unità. E allora proverò a spiegare io perché Concita De Gregorio va via, lascia la direzione e con tutta probabilità torna a Repubblica. E soprattutto perché non è un "santino". Tre anni fa alla guida dell'Unità, che allora tirava circa 60mila copie, c'era Antonio Padellaro, con Furio Colombo. Accanto a loro tutta una serie di ottimi giornalisti, come Enrico Fierro, Bruno Ugolini e tanti ragazzi, giovani preparati, precari soprattutto. I migliori di quel giornale, più di Travaglio e Oliviero Beha . Per carità, anche Padellaro and co non avevano gestito al massimo il quotidiano. Il direttore era spesso assente, i soldi mancavano, alcune realtà, come l'online erano assolutamente inadeguate. Ma questi sono problemi "veniali", in fondo questo manipolo di giornalisti aveva fatto rinascere l'Unità e l'aveva portata in pochi anni ad essere di nuovo uno dei quotidiani più importanti d'Italia. Ma ad un certo punto, dopo l'acquisto da parte di Soru della società editrice "Nuova iniziativa editoriale", che per i gravi problemi economci stava finendo addirittura nelle mani dei famigerati Angelucci, le cose comincino a cambiare. Veltroni annuncia a mezzo stampa (da segretario del Pd, principale partito di opposizione nel giugno 2008) che alla guida del quotidiano avrebbe visto bene una donna. La De Gregorio rilascia un'intervista dove si dice ben disposta ad accetare l'incarico. Peccato che il tutto sia avvenuto senza avvisare Padellaro e la redazione. Non starò qui a fare dietrologia. Per quella, lo ha già detto la direttora nel suo ultimo editoriale, c'è  dagospia. Ma un pò di fatti si possono snocciolare, giusto per fare chiarezza. Dall'arrivo della De Gregorio sono stati spesi molti milioni di euro per ideare la nuova veste editoriale dell'Unità (2,5 milioni solo a Toscani per una ridicola campagna di promozione) e il risultato è stato che si è passati dalle 60 mila copie di Padellaro alle 35 mila dell'ultima gestione. La De Gregorio, come molti direttori fanno anche in maniera legittima, ha portato con se una serie di collaboratori in redazione. Il problema è sorto quando ha emarginato parte dei giornalisti storici della testata e delle migliori firme per far posto ai suoi nomi, senza preoccuparsi delle gerarchie, del merito e dell'anzianità. Morale della favola: una gestione nepotistica del giornale ha portato in brevissimo tempo all'addio o all'epurazione sommaira di nomi come Travaglio, Fierro, Beha, e poi nel tempo di Lidia Ravera e tanti altri pezzi da 90. Tutti confluiti al Fatto Quotidiano, che in questo momento tira tre volte l'Unità. Dettagli. Poi Soru si dimette, Veltroni fallisce con lui e i soldi all'Unità non arrivano più. Non interessa più al suo editore. Quaranta giornalisti vengono buttati fuori da un giorno all'altro. Tra loro ci sono i migliori, quelli che vi dicevo pima, i giovani più talentuosi, più impegnati. Una vertenza durissima che vede la De Gregorio assolutamente immobile. Non un dito per loro. Di molti non sa nemmeno il nome, forse nemmeno legge gli articoli che quotidianamente pubblicano sul suo giornale per 20 euro lorde a pezzo (pagate a 90 giorni forse, ma più realisticamente a 120). E' per loro che in questo momento, più di ogni altra cosa, un dettaglio proprio non mi va giù: nel suo ultimo editoriale la De Gregorio, con sprezzo della vergogna, scrive "abbiamo attraversato lo stato di crisi aziendale rispettando con coscienza i patti che avevamo firmato, abbiamo combattuto le rendite di posizione, abbiamo messo in sicurezza i precari di antica gestione, non ne abbiamo creati di nuovi, abbiamo sostituito le maternità, abbiamo osservato con rigore la legge". Questo no, direttora, non lo posso sopportare, grida vendetta. Non avete rispettato la legge, non avete normalizzato i precari, non li avete messi in sicurezza, come si fa con le case terremotate. Li avete costretti ad andare via o a sottostare al ricatto della collaborazione. Mentre lei diventava un santino, mentre andava a tutte le manifestazioni e in tutte le tv a parlare di precari, di giovani e di lavoro. Non si possono fare queste cose quando la gente è in cassa integrazione a rotazione, quando uno per poter continuare a scrivere deve fare anche il cameriere e non arriva a fine mese, quando il giornale perde pezzi, dimenticandosi davvero di fare inchieste, di occuparsi del sociale e di lavoro. Il giornale di Gramsci è diventato in tre anni l'ombra di un free press. Mi hanno insegnato che quando la nave affonda, l'ultimo a lasciarla è il suo comandante. Ma oggi funziona diversamente: il comandante va via su uno yacht, parlando di come sconfiggerà le avversità e i nemici del popolo su un'altra nave. E va bene anche questo. Solo avrei gradito un pò di dignità in più. Per rispetto di quelli che affronteranno il naufragio da soli, senza nemmeno l'aiuto di un santino da incensare.